Posso passare sopra a tutto. No, meglio, posso passare sopra a molto.
Posso passare sopra al fatto che ti presenti a un primo appuntamento come fossi pronto a dimenarti, assatanato, a un concerto dei Metallica. Lo interpreto come l’impellente necessità di esplicitare le tue preferenze musicali. Sia mai che dall’altra parte ci sia una fan dei Gen Rosso.
Posso passare sopra al fatto che a quasi 40 anni giri con i capelli rasati a lato e la coda di cavallo. Fa molto Sandokan, vorrà dire che sarò la tua Perla di Labuan.
Posso passare pure sopra al fatto che a quasi 40 anni tu abbia un apparecchio ai denti su entrambe le arcate dentali, che mi fa tornare alla mente i brutti ricordi legati al mio, sei mesi alle medie non propriamente piacevoli.
Ecco, tutto questo non rappresenta per me un ostacolo. Ci mancherebbe. Anzi. Amo l’incontro tra diversità, stranezze varie, asintonie (passatemi la parola, che trovo molto bella) apparenti.
C’è una cosa però sopra la quale non posso passare sopra, specie a un primo appuntamento. Se non mi accompagni al parcheggio sei kaput.
Ma proprio. Non c’è nulla da fare. Possiamo avere passato una bella serata, tra aperitivo e cena, a chiacchierare, scherzare, raccontarci, guardarci negli occhi. Ma se arrivati al momento dei saluti non fai quei due passi in più per assicurarti che io salga in macchina per me sei fuori.
Lo so, sembrerò dittatoriale. Ma è dai piccoli gesti che si ricostruisce il quadro complessivo. Ed è in un semplice, se volete banale, gesto che si può interpretare l’andamento di tutta una sera.
Hai voglia di fare dieci metri in più a piedi, arrivare fino alla mia auto, assicurarti che ci salga, magari trattenerti qualche minuto a scambiare due parole, sperando che la serata non finisca, ancora e ancora?
Se sì, vuol dire che l’incontro è stato positivo da entrambe le parti. Che c’è la voglia di mantenere un po’ più a lungo il legame che si è creato. Se no, se mi saluti in malo (ovvero frettoloso) modo sul ciglio di una strada per attraversarla rapido verso la tua auto, che naturalmente ti sei già premunito di aprire, allora c’è qualcosa che non va. Allora tutta la serata viene riscritta, re-interpretata da quest’ultimo gesto che dà in fondo la misura del tutto.
(Ringrazio in ogni caso il malcapitato Paolo per la serata. Poteva andare meglio, ma poteva anche andare peggio).
E la cosa vale per entrambi i sessi. È capitato anche a me di metterla in pratica, questa mossa, del tutto inconsciamente.
Era il 2014, attorno a gennaio. A Monza incontro Matteo, belloccio, brillante a modo suo, un modo di fare di chi crede di saperla lunga. Il pomeriggio è piacevole, e scopro me stessa in un modo che ritengo positivo. Mi piaccio in quella interazione, tanto da arrivare ad annoverarlo tra i migliori primi appuntamenti.
C’è un ma, però. Lui mi accompagna alla macchina e mi saluta, prospettando la possibilità di una cena a base di pesce, a Milano, in un futuro non meglio definito. Io dico sì, pensando che la scelta del pesce non sia la più azzeccata, avendo dichiarato un certo ardore animalista che in quegli anni mi aveva portato a una riduzione estrema del consumo di carne e pesce. Ma tant’è, saluto e scappo in auto.
Non mi passa neanche per l’anticamera del cervello di proporgli di salire e accompagnarlo verso la sua di auto (lasciata da tutt’altra parte). Me ne scuserò dieci minuti (di troppo) più in là, via messaggio.
L’unica cosa che ho in mente, salendo in auto, è di controllare il messaggio che mi è arrivato da Michele, il musicista folk che stavo sentendo su Adottaunragazzo. Matteo non lo rivedrò più, dopo quel primo appuntamento eviterà di rispondere ai miei messaggi per motivi che non mi sarà mai dato sapere. È talmente giusto per età, residenza, lavoro (simile per certi versi al mio) che in quel momento penso pure che avrebbe potuto interessarmi.
Ma non è così. Il cuore e la mente allora e per i 12 mesi successivi sarebbero stati 200 chilometri più a sud, orientati verso una persona non così giusta per età, residenza, lavoro (Michele sole, cuore, amore). Allora neanche io, quindi, me ne rendevo troppo conto, anzi, pensavo tutt’altro. Ma un piccolo, banale, gesto, compiuto senza pensare troppo, anche in quel caso ha dato un senso diverso a tutta la situazione.
P.s. Curiosi di sapere com’è andata la conoscenza con Michele? Cliccate qui!
♠ In copertina: “Sandokan”, Sergio Sollima, 1976